ABSTRACT L’interesse per il tema oggetto della tesi nasce dalla constatazione che il carattere globale dei problemi posti dal diritto ambientale e la circostanza che l’ambiente sia di tutti e di nessuno, delle generazioni attuali e future, pongono l’interprete di fronte a questioni nuove e richiedono l’adattamento delle categorie tradizionali, anche processuali, alle peculiarità delle nuove fattispecie. La ricerca muove dall’esigenza di verificare le implicazioni di tale constatazione sulla legittimazione a ricorrere dinanzi al giudice europeo, atteso che i canoni tradizionali di legittimazione non sono più sufficienti a soddisfare il bisogno di accesso alla giustizia avvertito in materia ambientale. In detta rivisitazione, gioca un ruolo chiave la Convenzione delle Nazioni Unite sull’accesso alle informazione, la partecipazione del pubblico al processo decisionale e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, che l’Unione europea ha ratificato nel 2005, assumendo l’impegno di adeguare il proprio ordinamento alle disposizioni della Convenzione. Partendo dalla valorizzazione del ruolo della società civile (anche in funzione di controllo dell’attuazione del diritto ambientale), recata dalla Convenzione, il lavoro segue un percorso che dal campo internazionale approda all’ordinamento europeo, del quale esamina il grado di conformità rispetto alla Convenzione, con riguardo all'accesso alla giustizia dinanzi al giudice europeo, evidenziandone i numerosi limiti e fornendo una lettura dell'applicazione della Convenzione volta ad ampliare la legittimazione processuale non solo delle NGO, ma anche dei singoli, rispetto ai quali la condivisione dell’interesse ambientale con altri soggetti non costituisce un ostacolo all’imputazione all’individuo della titolarità di detto interesse e dell’azionabilità della relativa tutela. Lo studio pone in luce i vari profili innovativi della Convenzione e mostra come la stessa, valorizzando il legame tra interesse ambientale e individuo (da cui derivano, per es., i caratteri innovativi che connotano il sistema di controllo facente capo al Compliance Committee), offra importanti spunti nel senso dell’ampliamento della legittimazione ad agire. Inoltre, il collegamento dell’ambiente con i diritti umani, operato dalla Convenzione, permette di evidenziare la componente di doverosità della relativa tutela, da cui scaturiscono forme di legittimazione dal basso fondate appunto sulla condivisione delle responsabilità, e l’emersione di diritti (umani) procedurali ambientali (accesso alle informazioni, partecipazione e accesso alla giustizia), determinando una nuova forma di democrazia, c.d. “ambientale”. L’analisi si incentra, in particolare, sul terzo pilastro della Convenzione, dedicato all’accesso alla giustizia in materia ambientale (art. 9). Nel lavoro si ripercorre l’evoluzione che ha interessato il diritto di accesso alla giustizia, segnatamente in ambito europeo, laddove si è assistito alla progressiva valorizzazione della componente del principio di effettività della tutela giurisdizionale legata al diritto ad un ricorso effettivo, che ha spostato l’accento dall’effetto utile del diritto europeo all’esigenza di offrire piena protezione ai singoli. Il lavoro mostra come ciò abbia condotto ad una maggiore considerazione dei loro interessi sostanziali, sebbene tale “monito all’effettività della tutela giurisdizionale” sia stato addossato segnatamente ai giudici nazionali, anche sulla scorta di un’interpretazione “unidirezionale” del principio di leale collaborazione (art. 4 TUE), della quale si mostrano nella tesi i limiti e le ricadute negative sull’accesso alla giustizia europea. Il raffronto tra l’art. 47 della Carta di Nizza e l’art. 9 della Convenzione evidenzia, viceversa, la dimensione collettiva della tutela giurisdizionale assicurata dalla seconda disposizione- a fronte del carattere individuale della protezione garantita dalla prima- atteso che la Convenzione attribuisce un ruolo di rilievo ad interessi diffusi e collettivi come quelli ambientali, differenziandosi dai trattati internazionali sui diritti umani, restii ad accordare protezione a tali interessi. Il lavoro mostra come il terzo pilastro della Convenzione si innesti perfettamente in seno a tale evoluzione e imponga la rivisitazione del concetto classico di legittimazione attiva, in quanto conferisce la qualità di parte processuale anche al “pubblico” o al “pubblico interessato” ed eleva gli interessi diffusi (comunque oggetto di imputazione collettiva) ad interessi individualmente azionabili, in funzione di private enforcement, di controllo dell’effettiva applicazione del diritto ambientale. I requisiti minimi che, ai sensi dell’art. 9, le procedure di ricorso devono possedere per risultare conformi all’obiettivo di offrire al pubblico un ampio accesso alla giustizia rappresentano poi un imprescindibile parametro per valutare l’adeguatezza e l’effettività del diritto di accesso alla giustizia in materia ambientale a livello europeo. Ad essi si somma la finalità della Convenzione di assicurare un ampio accesso alla giustizia, che riduce il margine di discrezionalità riconosciuto in materia agli Stati membri, nel senso che le Parti non possono comunque deviare da tale scopo, previsto espressamente dalla Convenzione. Nello studio si pone in luce come, tra le disposizioni recate dall’art. 9 della Convenzione, quella più dirompente sia il paragrafo 3. Tale disposizione non è stata finora adeguatamente valorizzata in tutta la portata innovativa. Trattasi, infatti, di uno strumento di controllo dell’effettiva applicazione della normativa ambientale, che implica il coinvolgimento diretto dei membri del pubblico nell’attuazione e nell’osservanza del diritto ambientale, pur non implicando necessariamente l’introduzione di un’actio popularis. Nel lavoro si evidenzia come tale rimedio sia, infatti, azionabile non tanto come pretesa al rispetto della legalità obiettiva, quanto quale interesse specifico del soggetto a che la norma venga osservata. Alla luce di tali considerazioni, è possibile affermare come la Convenzione dia forma giuridica alla logica dell’azione collettiva, quale punto di equilibrio tra due approcci espremi: la tesi massimalista dell’actio popularis e quella minimalista dell’azione individuale, limitata ai portatori di un interesse diretto in gioco. I risultati descritti sono utilizzati nello studio come chiavi di lettura per valutare la compliance dell’ordinamento giuridico europeo al dettato del terzo pilastro della Convenzione ed il grado di effettività della tutela giurisdizionale offerta dal diritto europeo in materia ambientale. L’analisi si incentra sulla normativa rivolta alle istituzioni europee (il Regolamento di Aarhus) e mostra come la stessa detti una disciplina che si discosta in modo significativo dallo spirito della Convenzione, perché esclude i membri del pubblico diversi dalle ONG ambientaliste dall’accesso alla giustizia e riconosce la legittimazione ad agire a dette ONG “a norma delle pertinenti disposizioni del Trattato” (cfr. l’art. 263, par. 4, TFUE), che sono interpretate dalla costante giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE in termini restrittivi (applicando la cd. dottrina Plaumann). Dalla disamina della normativa europea indirizzata agli Stati membri emerge il ritardo dell’ordinamento europeo nella trasposizione del terzo pilastro, dove si rinviene una proposta di direttiva, recante un insieme minimo di regole comuni, che non ha visto ancora la luce (dal 2003). Il quadro generale dello stato di attuazione dell’art. 9, par. 3 e par. 4, della Convenzione da parte degli Stati membri (nonché dell’art. 3, par. 9, recante la clausola di non discriminazione) risulta piuttosto variegato, a causa delle rilevanti differenze tra i vari sistemi giuridici nazionali, e induce a prospettare l’abbandono del c.d. doppio approccio (basato sull’interesse o sul diritto), come possibile soluzione alla problematica del locus standi dei membri del pubblico in materia ambientale, e l’adozione di un quadro comune di norme procedurali che soddisfi comunque l’esigenza di differenziazione in ordine allo standing. Attraverso l’esame della giurisprudenza della Corte di giustizia scaturita dai rinvii pregiudiziali dei giudici nazionali, il lavoro mostra come, nel decidere in tale sede la Corte di giustizia abbia avuto un atteggiamento di notevole apertura sul tema dell’accesso alla giustizia in materia ambientale. Dalla disamina di tali pronunce è quindi possibile delineare l’esatta portata del diritto di accesso alla giustizia, quale imprescindibile punto di partenza da cui muovere per confutare l’interpretazione restrittiva che, viceversa, il giudice europeo in sede di ricorso di annullamento di atti europei, proposto dai ricorrenti non privilegiati (art. 263 TFUE). Quest’ultima interpretazione seguita costantemente dalla Corte di giustizia dell’UE in materia di locus standi dei privati (individui o associazioni) è fondata sulla c.d. dottrina Plaumann, secondo cui i ricorrenti non privilegiati devono essere riguardati “individualmente” dall’atto impugnato (oltre che direttamente) ai fini della legittimazione ad agire. Nel lavoro si evidenzia come tale orientamento sia fortemente restrittivo e inadeguato, solo considerando che quanto più grave è la violazione e più ampio il gruppo potenzialmente interessato (come nel caso delle violazioni ambientali), tanto minore è la probabilità che i requisiti richiesti dal test Plaumann possano essere soddisfatti. Peraltro, dall’analisi delle cause decise dal giudice europeo (in particolare, alcune pronunce del Tribunale e le conclusioni degli avvocati generali) si traggono spunti per il superamento del citato orientamento restrittivo, che non sono invece desumibili dalla modifica introdotta dal Trattato di Lisbona in tema di legittimazione ad agire (art. 263, par. 4, TFUE). Le considerazioni che precedono portano ad affrontare la questione della completezza ed effettività della tutela offerta in campo ambientale dal sistema di rimedi giurisdizionali di cui agli artt. 263, 267 e 277 TFUE, alla luce dei limiti che il rinvio pregiudiziale presenta sotto vari profili, nonché del principio generale di effettività della tutela giurisdizionale e delle disposizioni della Convenzione, che impongono alle parti di prevedere in materia procedure amministrative o giurisdizionali obiettive, eque, rapide e non eccessivamente onerose, tali da offrire rimedi adeguati ed effettivi (art. 9, par. 4, della Convenzione). Nel lavoro la questione è esaminata anche alla luce dell’obbligo di leale collaborazione che intercorre tra la Corte di giustizia dell’UE e i giudici nazionali (art. 4 TUE) e che è anche alla base del principio di uniforme interpretazione del diritto comunitario, nonché alla stregua del principio di coerenza, che si ritiene debba caratterizzare il sistema giudiziario europeo. Al fine di superare i limiti dell'approccio asimmetrico del giudice europeo, nello studio si prospetta una tesi ricostruttiva che considera segnatamente le potenzialità espansive del principio di leale collaborazione nella direzione inversa (e poco esplorata), rispetto a quella indicata dalla Corte di giustizia (che fa leva sul meccanismo del rinvio pregiudiziale), che valorizza la portata bidirezionale o reciproca del principio in discorso, obbligante non solo gli Stati membri, ma anche le istituzioni europee (Corte di giustizia dell’UE compresa) a cooperare lealmente con i primi.

La convenzione di aarhus e l'accesso alla giustizia in materia ambientale nel diritto europeo / Conio, Alba. - (2014 Jul 15).

La convenzione di aarhus e l'accesso alla giustizia in materia ambientale nel diritto europeo

CONIO, ALBA
15/07/2014

Abstract

ABSTRACT L’interesse per il tema oggetto della tesi nasce dalla constatazione che il carattere globale dei problemi posti dal diritto ambientale e la circostanza che l’ambiente sia di tutti e di nessuno, delle generazioni attuali e future, pongono l’interprete di fronte a questioni nuove e richiedono l’adattamento delle categorie tradizionali, anche processuali, alle peculiarità delle nuove fattispecie. La ricerca muove dall’esigenza di verificare le implicazioni di tale constatazione sulla legittimazione a ricorrere dinanzi al giudice europeo, atteso che i canoni tradizionali di legittimazione non sono più sufficienti a soddisfare il bisogno di accesso alla giustizia avvertito in materia ambientale. In detta rivisitazione, gioca un ruolo chiave la Convenzione delle Nazioni Unite sull’accesso alle informazione, la partecipazione del pubblico al processo decisionale e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, che l’Unione europea ha ratificato nel 2005, assumendo l’impegno di adeguare il proprio ordinamento alle disposizioni della Convenzione. Partendo dalla valorizzazione del ruolo della società civile (anche in funzione di controllo dell’attuazione del diritto ambientale), recata dalla Convenzione, il lavoro segue un percorso che dal campo internazionale approda all’ordinamento europeo, del quale esamina il grado di conformità rispetto alla Convenzione, con riguardo all'accesso alla giustizia dinanzi al giudice europeo, evidenziandone i numerosi limiti e fornendo una lettura dell'applicazione della Convenzione volta ad ampliare la legittimazione processuale non solo delle NGO, ma anche dei singoli, rispetto ai quali la condivisione dell’interesse ambientale con altri soggetti non costituisce un ostacolo all’imputazione all’individuo della titolarità di detto interesse e dell’azionabilità della relativa tutela. Lo studio pone in luce i vari profili innovativi della Convenzione e mostra come la stessa, valorizzando il legame tra interesse ambientale e individuo (da cui derivano, per es., i caratteri innovativi che connotano il sistema di controllo facente capo al Compliance Committee), offra importanti spunti nel senso dell’ampliamento della legittimazione ad agire. Inoltre, il collegamento dell’ambiente con i diritti umani, operato dalla Convenzione, permette di evidenziare la componente di doverosità della relativa tutela, da cui scaturiscono forme di legittimazione dal basso fondate appunto sulla condivisione delle responsabilità, e l’emersione di diritti (umani) procedurali ambientali (accesso alle informazioni, partecipazione e accesso alla giustizia), determinando una nuova forma di democrazia, c.d. “ambientale”. L’analisi si incentra, in particolare, sul terzo pilastro della Convenzione, dedicato all’accesso alla giustizia in materia ambientale (art. 9). Nel lavoro si ripercorre l’evoluzione che ha interessato il diritto di accesso alla giustizia, segnatamente in ambito europeo, laddove si è assistito alla progressiva valorizzazione della componente del principio di effettività della tutela giurisdizionale legata al diritto ad un ricorso effettivo, che ha spostato l’accento dall’effetto utile del diritto europeo all’esigenza di offrire piena protezione ai singoli. Il lavoro mostra come ciò abbia condotto ad una maggiore considerazione dei loro interessi sostanziali, sebbene tale “monito all’effettività della tutela giurisdizionale” sia stato addossato segnatamente ai giudici nazionali, anche sulla scorta di un’interpretazione “unidirezionale” del principio di leale collaborazione (art. 4 TUE), della quale si mostrano nella tesi i limiti e le ricadute negative sull’accesso alla giustizia europea. Il raffronto tra l’art. 47 della Carta di Nizza e l’art. 9 della Convenzione evidenzia, viceversa, la dimensione collettiva della tutela giurisdizionale assicurata dalla seconda disposizione- a fronte del carattere individuale della protezione garantita dalla prima- atteso che la Convenzione attribuisce un ruolo di rilievo ad interessi diffusi e collettivi come quelli ambientali, differenziandosi dai trattati internazionali sui diritti umani, restii ad accordare protezione a tali interessi. Il lavoro mostra come il terzo pilastro della Convenzione si innesti perfettamente in seno a tale evoluzione e imponga la rivisitazione del concetto classico di legittimazione attiva, in quanto conferisce la qualità di parte processuale anche al “pubblico” o al “pubblico interessato” ed eleva gli interessi diffusi (comunque oggetto di imputazione collettiva) ad interessi individualmente azionabili, in funzione di private enforcement, di controllo dell’effettiva applicazione del diritto ambientale. I requisiti minimi che, ai sensi dell’art. 9, le procedure di ricorso devono possedere per risultare conformi all’obiettivo di offrire al pubblico un ampio accesso alla giustizia rappresentano poi un imprescindibile parametro per valutare l’adeguatezza e l’effettività del diritto di accesso alla giustizia in materia ambientale a livello europeo. Ad essi si somma la finalità della Convenzione di assicurare un ampio accesso alla giustizia, che riduce il margine di discrezionalità riconosciuto in materia agli Stati membri, nel senso che le Parti non possono comunque deviare da tale scopo, previsto espressamente dalla Convenzione. Nello studio si pone in luce come, tra le disposizioni recate dall’art. 9 della Convenzione, quella più dirompente sia il paragrafo 3. Tale disposizione non è stata finora adeguatamente valorizzata in tutta la portata innovativa. Trattasi, infatti, di uno strumento di controllo dell’effettiva applicazione della normativa ambientale, che implica il coinvolgimento diretto dei membri del pubblico nell’attuazione e nell’osservanza del diritto ambientale, pur non implicando necessariamente l’introduzione di un’actio popularis. Nel lavoro si evidenzia come tale rimedio sia, infatti, azionabile non tanto come pretesa al rispetto della legalità obiettiva, quanto quale interesse specifico del soggetto a che la norma venga osservata. Alla luce di tali considerazioni, è possibile affermare come la Convenzione dia forma giuridica alla logica dell’azione collettiva, quale punto di equilibrio tra due approcci espremi: la tesi massimalista dell’actio popularis e quella minimalista dell’azione individuale, limitata ai portatori di un interesse diretto in gioco. I risultati descritti sono utilizzati nello studio come chiavi di lettura per valutare la compliance dell’ordinamento giuridico europeo al dettato del terzo pilastro della Convenzione ed il grado di effettività della tutela giurisdizionale offerta dal diritto europeo in materia ambientale. L’analisi si incentra sulla normativa rivolta alle istituzioni europee (il Regolamento di Aarhus) e mostra come la stessa detti una disciplina che si discosta in modo significativo dallo spirito della Convenzione, perché esclude i membri del pubblico diversi dalle ONG ambientaliste dall’accesso alla giustizia e riconosce la legittimazione ad agire a dette ONG “a norma delle pertinenti disposizioni del Trattato” (cfr. l’art. 263, par. 4, TFUE), che sono interpretate dalla costante giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE in termini restrittivi (applicando la cd. dottrina Plaumann). Dalla disamina della normativa europea indirizzata agli Stati membri emerge il ritardo dell’ordinamento europeo nella trasposizione del terzo pilastro, dove si rinviene una proposta di direttiva, recante un insieme minimo di regole comuni, che non ha visto ancora la luce (dal 2003). Il quadro generale dello stato di attuazione dell’art. 9, par. 3 e par. 4, della Convenzione da parte degli Stati membri (nonché dell’art. 3, par. 9, recante la clausola di non discriminazione) risulta piuttosto variegato, a causa delle rilevanti differenze tra i vari sistemi giuridici nazionali, e induce a prospettare l’abbandono del c.d. doppio approccio (basato sull’interesse o sul diritto), come possibile soluzione alla problematica del locus standi dei membri del pubblico in materia ambientale, e l’adozione di un quadro comune di norme procedurali che soddisfi comunque l’esigenza di differenziazione in ordine allo standing. Attraverso l’esame della giurisprudenza della Corte di giustizia scaturita dai rinvii pregiudiziali dei giudici nazionali, il lavoro mostra come, nel decidere in tale sede la Corte di giustizia abbia avuto un atteggiamento di notevole apertura sul tema dell’accesso alla giustizia in materia ambientale. Dalla disamina di tali pronunce è quindi possibile delineare l’esatta portata del diritto di accesso alla giustizia, quale imprescindibile punto di partenza da cui muovere per confutare l’interpretazione restrittiva che, viceversa, il giudice europeo in sede di ricorso di annullamento di atti europei, proposto dai ricorrenti non privilegiati (art. 263 TFUE). Quest’ultima interpretazione seguita costantemente dalla Corte di giustizia dell’UE in materia di locus standi dei privati (individui o associazioni) è fondata sulla c.d. dottrina Plaumann, secondo cui i ricorrenti non privilegiati devono essere riguardati “individualmente” dall’atto impugnato (oltre che direttamente) ai fini della legittimazione ad agire. Nel lavoro si evidenzia come tale orientamento sia fortemente restrittivo e inadeguato, solo considerando che quanto più grave è la violazione e più ampio il gruppo potenzialmente interessato (come nel caso delle violazioni ambientali), tanto minore è la probabilità che i requisiti richiesti dal test Plaumann possano essere soddisfatti. Peraltro, dall’analisi delle cause decise dal giudice europeo (in particolare, alcune pronunce del Tribunale e le conclusioni degli avvocati generali) si traggono spunti per il superamento del citato orientamento restrittivo, che non sono invece desumibili dalla modifica introdotta dal Trattato di Lisbona in tema di legittimazione ad agire (art. 263, par. 4, TFUE). Le considerazioni che precedono portano ad affrontare la questione della completezza ed effettività della tutela offerta in campo ambientale dal sistema di rimedi giurisdizionali di cui agli artt. 263, 267 e 277 TFUE, alla luce dei limiti che il rinvio pregiudiziale presenta sotto vari profili, nonché del principio generale di effettività della tutela giurisdizionale e delle disposizioni della Convenzione, che impongono alle parti di prevedere in materia procedure amministrative o giurisdizionali obiettive, eque, rapide e non eccessivamente onerose, tali da offrire rimedi adeguati ed effettivi (art. 9, par. 4, della Convenzione). Nel lavoro la questione è esaminata anche alla luce dell’obbligo di leale collaborazione che intercorre tra la Corte di giustizia dell’UE e i giudici nazionali (art. 4 TUE) e che è anche alla base del principio di uniforme interpretazione del diritto comunitario, nonché alla stregua del principio di coerenza, che si ritiene debba caratterizzare il sistema giudiziario europeo. Al fine di superare i limiti dell'approccio asimmetrico del giudice europeo, nello studio si prospetta una tesi ricostruttiva che considera segnatamente le potenzialità espansive del principio di leale collaborazione nella direzione inversa (e poco esplorata), rispetto a quella indicata dalla Corte di giustizia (che fa leva sul meccanismo del rinvio pregiudiziale), che valorizza la portata bidirezionale o reciproca del principio in discorso, obbligante non solo gli Stati membri, ma anche le istituzioni europee (Corte di giustizia dell’UE compresa) a cooperare lealmente con i primi.
15-lug-2014
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Tesi dottorato Conio

Open Access dal 01/02/2021

Tipologia: Tesi di dottorato
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11573/1045563
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