La donna rom incarna in una sola persona tutti i peggiori stereotipi negativi tipici delle società occidentali. Con queste premesse, non stupisce che le romnià siano così presenti nelle cronache sulla devianza femminile, negli istituti di pena minorili e nelle carceri. Il titolo della tesi, “chiuse fuori”, è teso ad indicare le condizioni di esclusione e preclusione, oltre che di reclusione, che queste donne vivono. Dalle informazioni quantitative che ho raccolto è emerso che un terzo delle detenute di Rebibbia è rom, così come il 95% delle madri dei reparti nido e il 60-80% delle ragazze che transitano dal circuito penale minorile. In Europa, come mostrerò, con i rom avviene quello che negli Stati Uniti accade con neri e latinoamericani: “la prigione diviene così un prolungamento-sostituto del ghetto”, come evidenzia Loic Wacquant. Oltre ad essere sovrarappresentate negli istituti di pena le donne rom sono di fatto chiuse fuori dalla nostra società, vivono in insediamenti ghettizzanti, non hanno documenti d’identità e di soggiorno, sono quotidianamente discriminate. Alcuni rom entrano negli istituti di pena ancora prima di nascere, quando sono nella pancia delle loro mamme. Altri trascorrono i loro primi tre anni di vita in carcere e poi vi tornano per i colloqui, una volta a settimana. Alcuni entrano negli istituti di pena a quattordici anni, quando la legge italiana li riconosce imputabili. Quando arrivano a Rebibbia, molte donne rom hanno già avuto esperienze di detenzione e ritrovano parenti e vecchie amicizie. Ho conosciuto una donna che ha incontrato sua figlia a Rebibbia dopo anni, perché la mancanza di permesso di soggiorno non aveva reso possibili le visite e solo la comune detenzione ha potuto riportarle nuovamente vicine. In carcere la mancanza della famiglia si sente, ed è il dolore più grande. Fuori dal carcere la mancanza delle donne detenute è forte e costringe riassetti familiari dolorosi. “Qui è dura, -ha riferito una donna intervistata- adesso siamo in quattro, hanno tolto una rete, prima eravamo in cinque, io sto con due rom e con una di colore. Poi lo sai cos’è, conosci persone... tutte cose diverse no? È brutto stare qua dentro, perché è brutto, però il tempo passa così, parlando, si gioca a carte, una cucina, una fa la doccia, ti guardi un film un giorno, piangi un giorno, ridi, è così la vita qua dentro. Io l’unica cosa che mi fa paura che quando esco fuori da qui è come dovrò riprendere i rapporti con i miei figli, che sono arrabbiati con me. E mi fa male, mi fa veramente male.” La ricerca svolta ha come tematica centrale lo studio della situazione delle donne rom detenute a Rebibbia, per realizzare tale studio ho frequentato il carcere, a fasi alterne, per quasi due anni. Ho realizzato interviste e focus group, ho seguito la maggior parte dei momenti della quotidianità delle donne detenute ed ho avuto numerosi confronti con il personale che lavora nell’Istituto. Parallelamente ho seguito la situazione dei rom fuori dal carcere, ho incontrato le donne che finivano il periodo di reclusione, ho frequentato i campi e monitorato costantemente le progettualità e gli eventi che sono successi negli ultimi anni. Ho inoltre deciso di approfondire la ricerca anche sulla situazione dei minori che transitano dal circuito penale minorile attraverso interviste e focus group ai giovani ed agli operatori. Nel testo ho cercato di introdurre chi legge nel complesso tema della devianza femminile rom a piccoli passi iniziando col raccontare il mio percorso personale di studio e lavoro e spiegando la cornice teorica nella quale ho cercato di inquadrare la ricerca. Il cammino attraverso il quale ho voluto condurre il lettore in carcere è volutamente lento ed ha un andamento a spirale, le storie descritte sono complesse e in questo modo ho cercato di scongiurare i pericoli dei percorsi ripidi e veloci che rischiano di far cadere nella trappola del sensazionalismo mediatico o degli slogan. Prima di entrare in carcere ho voluto far ripercorrere il tragitto storico che ha condotto i rom nell’attuale condizione accompagnando chi legge attraverso le mappe dei luoghi e delle politiche per i rom, collocati sempre ai margini, chiusi fuori. Per disporre in una dimensione storica e geografica la condizione delle donne rom detenute ho quindi deciso di dedicare la prima parte della tesi alla storia dei rom ed all’evoluzione dello stereotipo dello “zingaro criminale” in Europa. Per inquadrare la situazione generale dei rom in Italia e a Roma in particolare ho riservato il secondo capitolo alla descrizione delle condizioni di vita fuori dal carcere, raccontando la storia dei campi e l’evoluzione delle progettualità sull’inclusione delle popolazioni romanì. Inquadrare in senso diacronico e spaziale la situazione è importante perché, come mostrerò, queste premesse strutturano e distinguono le attuali condizioni delle donne rom conducendole, mano nella mano, in carcere. I due capitoli centrali sono stati dedicati alla descrizione delle storie di vita e della quotidianità dei minori e delle donne transitati dal circuito penale italiano. Ho raccontato i percorsi che hanno portato alla condizione di devianza, le progettualità presenti nel carcere, i rapporti fra le detenute ed i contatti con le famiglie. Nella parte conclusiva, ho approfondito i temi dell’antiziganismo seguendo principalmente gli studi di Piasere, ho poi analizzato l’immagine dei rom nei mass media, nei discorsi politici e fra le giovani generazioni attraverso la ricerca diretta nelle scuole e sul web. Infine ho parlato della tendenza a sopperire alle mancanze dello stato sociale attraverso lo stato penale, citando principalmente gli studi di Wacquant. La ricerca sulle romnià in carcere mi ha permesso di osservare le popolazioni rom in una prospettiva nuova e interessante. La dimensione “ristretta” offre un’immagine speculare ribaltata di quelle che sono le rappresentazioni dei rom nella diffusa opinione pubblica. Se fuori sono criminali, asociali, sporchi, scansafatiche, problematici e inclini a non rispettare le leggi, in carcere le romnià sono le detenute che hanno commesso reati meno gravi, quindi le “meno criminali fra i criminali”, sono le più instancabili al lavoro, collaborative, socievoli e benvolute dalle altre detenute, sono affettuose e attaccate ai figli, mai soggette a rapporti disciplinari, mantengono le celle pulite, sono poco interessate dal fenomeno delle dipendenze e da tutto ciò che ne consegue, non hanno mai commesso omicidi e non sono mai entrate nelle sezioni del 41 bis. I rom commettono prevalentemente reati contro il patrimonio, soprattutto furto e rapina. Le interviste che ho raccolto confermano questo dato e fanno emergere un fenomeno che sembra particolarmente diffuso: in molti casi il reato effettivamente commesso è meno grave di quello che viene imputato e scontato, come nel caso dei semplici furti che diventano rapine aggravate. Gli indicatori di cui disponiamo sulla condizione dei rom e sinti che entrano nel circuito penale mostrano che essi non solo sono fortemente discriminati rispetto agli italiani, ma ricevono anche un trattamento peggiore di quello solitamente riservato agli stranieri. "Il carcere per i ragazzi rimane fortunatamente una extrema ratio -spiega Antigone- sebbene meno estrema per i rom, per i giovani immigrati e per coloro che provengono dalle fasce deboli della società". Un caso particolarmente emblematico riguarda le ragazze rom, che rappresentano la quasi totalità delle detenute degli istituti di pena minorili. Queste minori sono detenute non perché hanno commesso reati più gravi delle coetanee che invece riescono ad uscire dal circuito penale, si trovano in un istituto detentivo nella maggioranza dei casi, perché non hanno una situazione socio-familiare che corrisponda ai requisiti per assegnare una misura diversa dalla carcerazione. Gli stranieri e i rom vengono condannati più spesso degli italiani e hanno periodi di detenzione cautelare più lunghi. Inoltre, la carenza di prospettive legali di permanenza sul territorio italiano rischia di vanificare qualsiasi percorso di inserimento sociale avviato durante i periodi di detenzione o misure cautelari. Secondo Wacquant, la carcerazione non riguarda solo chi commette un reato, ma anche gli homeless, i vagabondi, i poveri, i migranti. La concomitanza tra ridimensionamento del settore sociale e accrescimento del settore penale non deriva da mutamenti della povertà o della criminalità, ma è alimentata da una politica del risentimento nei confronti di categorie sociali considerate immeritevoli e indisciplinate, prime fra tutte quelle dei beneficiari di assistenza pubblica e dei criminali di strada che diventano immagini-simbolo. Le popolazioni romanì rientrano perfettamente in queste categorie. Negli Istituti penitenziari italiani ed europei, la sovrarappresentazione di rom e stranieri risulta ancor più marcata in riferimento al genere femminile e ai minori. Interessante il termine usato da Re, che riconduce il problema ad una “discriminazione strutturale” di tali soggetti dovuta sia alle modalità di intervento delle istituzioni penali, sia alla condizione di esclusione nella quale essi si trovano a vivere. "La giustizia penale opera una selezione sociale individuando come utenti privilegiati i minori appartenenti alle categorie più disagiate. Questa discriminazione strutturale è collegata ad una generale trasformazione sociale. Le grandi città del centro-nord ospitano un gran numero di migranti che si insediano nelle periferie e subiscono un processo di ghettizzazione. Questo fenomeno raggiunge il massimo livello con i campi rom”. Sarebbe però riduttivo limitare il concetto di povertà solo alla questione economica. A caratterizzare queste persone, come evidenziato da Campesi, è soprattutto l’isolamento sociale e culturale di cui sono vittime, le difficoltà di accesso ai servizi pubblici e la scarsa qualità delle condizioni abitative. La risposta penale in senso repressivo è frutto di una cultura che tende a colpevolizzare gli individui per la loro condizione disagiata piuttosto che elaborare progetti politici e sociali a loro favore. Le popolazioni rom e le donne rom in particolare sono escluse dalla nostra società. Sono “chiuse fuori”.

Chiuse fuori. Storie di devianza e discriminazioni delle donne rom in Italia, fuori e dentro il carcere / Miscioscia, Sara. - (2017 Feb 27).

Chiuse fuori. Storie di devianza e discriminazioni delle donne rom in Italia, fuori e dentro il carcere.

MISCIOSCIA, SARA
27/02/2017

Abstract

La donna rom incarna in una sola persona tutti i peggiori stereotipi negativi tipici delle società occidentali. Con queste premesse, non stupisce che le romnià siano così presenti nelle cronache sulla devianza femminile, negli istituti di pena minorili e nelle carceri. Il titolo della tesi, “chiuse fuori”, è teso ad indicare le condizioni di esclusione e preclusione, oltre che di reclusione, che queste donne vivono. Dalle informazioni quantitative che ho raccolto è emerso che un terzo delle detenute di Rebibbia è rom, così come il 95% delle madri dei reparti nido e il 60-80% delle ragazze che transitano dal circuito penale minorile. In Europa, come mostrerò, con i rom avviene quello che negli Stati Uniti accade con neri e latinoamericani: “la prigione diviene così un prolungamento-sostituto del ghetto”, come evidenzia Loic Wacquant. Oltre ad essere sovrarappresentate negli istituti di pena le donne rom sono di fatto chiuse fuori dalla nostra società, vivono in insediamenti ghettizzanti, non hanno documenti d’identità e di soggiorno, sono quotidianamente discriminate. Alcuni rom entrano negli istituti di pena ancora prima di nascere, quando sono nella pancia delle loro mamme. Altri trascorrono i loro primi tre anni di vita in carcere e poi vi tornano per i colloqui, una volta a settimana. Alcuni entrano negli istituti di pena a quattordici anni, quando la legge italiana li riconosce imputabili. Quando arrivano a Rebibbia, molte donne rom hanno già avuto esperienze di detenzione e ritrovano parenti e vecchie amicizie. Ho conosciuto una donna che ha incontrato sua figlia a Rebibbia dopo anni, perché la mancanza di permesso di soggiorno non aveva reso possibili le visite e solo la comune detenzione ha potuto riportarle nuovamente vicine. In carcere la mancanza della famiglia si sente, ed è il dolore più grande. Fuori dal carcere la mancanza delle donne detenute è forte e costringe riassetti familiari dolorosi. “Qui è dura, -ha riferito una donna intervistata- adesso siamo in quattro, hanno tolto una rete, prima eravamo in cinque, io sto con due rom e con una di colore. Poi lo sai cos’è, conosci persone... tutte cose diverse no? È brutto stare qua dentro, perché è brutto, però il tempo passa così, parlando, si gioca a carte, una cucina, una fa la doccia, ti guardi un film un giorno, piangi un giorno, ridi, è così la vita qua dentro. Io l’unica cosa che mi fa paura che quando esco fuori da qui è come dovrò riprendere i rapporti con i miei figli, che sono arrabbiati con me. E mi fa male, mi fa veramente male.” La ricerca svolta ha come tematica centrale lo studio della situazione delle donne rom detenute a Rebibbia, per realizzare tale studio ho frequentato il carcere, a fasi alterne, per quasi due anni. Ho realizzato interviste e focus group, ho seguito la maggior parte dei momenti della quotidianità delle donne detenute ed ho avuto numerosi confronti con il personale che lavora nell’Istituto. Parallelamente ho seguito la situazione dei rom fuori dal carcere, ho incontrato le donne che finivano il periodo di reclusione, ho frequentato i campi e monitorato costantemente le progettualità e gli eventi che sono successi negli ultimi anni. Ho inoltre deciso di approfondire la ricerca anche sulla situazione dei minori che transitano dal circuito penale minorile attraverso interviste e focus group ai giovani ed agli operatori. Nel testo ho cercato di introdurre chi legge nel complesso tema della devianza femminile rom a piccoli passi iniziando col raccontare il mio percorso personale di studio e lavoro e spiegando la cornice teorica nella quale ho cercato di inquadrare la ricerca. Il cammino attraverso il quale ho voluto condurre il lettore in carcere è volutamente lento ed ha un andamento a spirale, le storie descritte sono complesse e in questo modo ho cercato di scongiurare i pericoli dei percorsi ripidi e veloci che rischiano di far cadere nella trappola del sensazionalismo mediatico o degli slogan. Prima di entrare in carcere ho voluto far ripercorrere il tragitto storico che ha condotto i rom nell’attuale condizione accompagnando chi legge attraverso le mappe dei luoghi e delle politiche per i rom, collocati sempre ai margini, chiusi fuori. Per disporre in una dimensione storica e geografica la condizione delle donne rom detenute ho quindi deciso di dedicare la prima parte della tesi alla storia dei rom ed all’evoluzione dello stereotipo dello “zingaro criminale” in Europa. Per inquadrare la situazione generale dei rom in Italia e a Roma in particolare ho riservato il secondo capitolo alla descrizione delle condizioni di vita fuori dal carcere, raccontando la storia dei campi e l’evoluzione delle progettualità sull’inclusione delle popolazioni romanì. Inquadrare in senso diacronico e spaziale la situazione è importante perché, come mostrerò, queste premesse strutturano e distinguono le attuali condizioni delle donne rom conducendole, mano nella mano, in carcere. I due capitoli centrali sono stati dedicati alla descrizione delle storie di vita e della quotidianità dei minori e delle donne transitati dal circuito penale italiano. Ho raccontato i percorsi che hanno portato alla condizione di devianza, le progettualità presenti nel carcere, i rapporti fra le detenute ed i contatti con le famiglie. Nella parte conclusiva, ho approfondito i temi dell’antiziganismo seguendo principalmente gli studi di Piasere, ho poi analizzato l’immagine dei rom nei mass media, nei discorsi politici e fra le giovani generazioni attraverso la ricerca diretta nelle scuole e sul web. Infine ho parlato della tendenza a sopperire alle mancanze dello stato sociale attraverso lo stato penale, citando principalmente gli studi di Wacquant. La ricerca sulle romnià in carcere mi ha permesso di osservare le popolazioni rom in una prospettiva nuova e interessante. La dimensione “ristretta” offre un’immagine speculare ribaltata di quelle che sono le rappresentazioni dei rom nella diffusa opinione pubblica. Se fuori sono criminali, asociali, sporchi, scansafatiche, problematici e inclini a non rispettare le leggi, in carcere le romnià sono le detenute che hanno commesso reati meno gravi, quindi le “meno criminali fra i criminali”, sono le più instancabili al lavoro, collaborative, socievoli e benvolute dalle altre detenute, sono affettuose e attaccate ai figli, mai soggette a rapporti disciplinari, mantengono le celle pulite, sono poco interessate dal fenomeno delle dipendenze e da tutto ciò che ne consegue, non hanno mai commesso omicidi e non sono mai entrate nelle sezioni del 41 bis. I rom commettono prevalentemente reati contro il patrimonio, soprattutto furto e rapina. Le interviste che ho raccolto confermano questo dato e fanno emergere un fenomeno che sembra particolarmente diffuso: in molti casi il reato effettivamente commesso è meno grave di quello che viene imputato e scontato, come nel caso dei semplici furti che diventano rapine aggravate. Gli indicatori di cui disponiamo sulla condizione dei rom e sinti che entrano nel circuito penale mostrano che essi non solo sono fortemente discriminati rispetto agli italiani, ma ricevono anche un trattamento peggiore di quello solitamente riservato agli stranieri. "Il carcere per i ragazzi rimane fortunatamente una extrema ratio -spiega Antigone- sebbene meno estrema per i rom, per i giovani immigrati e per coloro che provengono dalle fasce deboli della società". Un caso particolarmente emblematico riguarda le ragazze rom, che rappresentano la quasi totalità delle detenute degli istituti di pena minorili. Queste minori sono detenute non perché hanno commesso reati più gravi delle coetanee che invece riescono ad uscire dal circuito penale, si trovano in un istituto detentivo nella maggioranza dei casi, perché non hanno una situazione socio-familiare che corrisponda ai requisiti per assegnare una misura diversa dalla carcerazione. Gli stranieri e i rom vengono condannati più spesso degli italiani e hanno periodi di detenzione cautelare più lunghi. Inoltre, la carenza di prospettive legali di permanenza sul territorio italiano rischia di vanificare qualsiasi percorso di inserimento sociale avviato durante i periodi di detenzione o misure cautelari. Secondo Wacquant, la carcerazione non riguarda solo chi commette un reato, ma anche gli homeless, i vagabondi, i poveri, i migranti. La concomitanza tra ridimensionamento del settore sociale e accrescimento del settore penale non deriva da mutamenti della povertà o della criminalità, ma è alimentata da una politica del risentimento nei confronti di categorie sociali considerate immeritevoli e indisciplinate, prime fra tutte quelle dei beneficiari di assistenza pubblica e dei criminali di strada che diventano immagini-simbolo. Le popolazioni romanì rientrano perfettamente in queste categorie. Negli Istituti penitenziari italiani ed europei, la sovrarappresentazione di rom e stranieri risulta ancor più marcata in riferimento al genere femminile e ai minori. Interessante il termine usato da Re, che riconduce il problema ad una “discriminazione strutturale” di tali soggetti dovuta sia alle modalità di intervento delle istituzioni penali, sia alla condizione di esclusione nella quale essi si trovano a vivere. "La giustizia penale opera una selezione sociale individuando come utenti privilegiati i minori appartenenti alle categorie più disagiate. Questa discriminazione strutturale è collegata ad una generale trasformazione sociale. Le grandi città del centro-nord ospitano un gran numero di migranti che si insediano nelle periferie e subiscono un processo di ghettizzazione. Questo fenomeno raggiunge il massimo livello con i campi rom”. Sarebbe però riduttivo limitare il concetto di povertà solo alla questione economica. A caratterizzare queste persone, come evidenziato da Campesi, è soprattutto l’isolamento sociale e culturale di cui sono vittime, le difficoltà di accesso ai servizi pubblici e la scarsa qualità delle condizioni abitative. La risposta penale in senso repressivo è frutto di una cultura che tende a colpevolizzare gli individui per la loro condizione disagiata piuttosto che elaborare progetti politici e sociali a loro favore. Le popolazioni rom e le donne rom in particolare sono escluse dalla nostra società. Sono “chiuse fuori”.
27-feb-2017
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